Un po’ di storia della 100km…
Quando, in viaggio, mi trovo in posti affascinanti e diroccati, spesso mi sorprendo a pensare di rivivere nell’epoca in cui tali luoghi erano nel loro massimo splendore,
qualche centinaio di anni prima. A volte, oltre che sorprendermi, vengo sorpreso, come quando una comitiva di turisti inglesi entrò a San Galgano e beccò me, mia moglie e un mio amico a duellare con degli spadoni immaginari, facendo con la bocca dei rumori tipo Guerre Stellari.
Con lo stesso spirito, credo, esattamente quaranta anni fa, un uomo di nome Alteo Dolcini decise di organizzare una corsa podistica un po’ particolare. Innanzitutto, per la lunghezza: la corsa parte da Firenze ed arriva a Faenza, srotolandosi lungo l’Appennino tosco-emiliano per cento chilometri. Avete letto bene: cento chilometri da correre a piedi lungo il tragitto da Firenze a Faenza. In secondo luogo, la corsa non è esattamente in piano: si parte da via dei Calzaiuoli, si valicano più o meno agilmente alcuni valichi montani di tutto rispetto come la vetta delle croci, sito a 518 metri sul livello del mare, e il passo Colla (a quota 916); dopodiché, per chi ancora si regge in piedi, da lì all’arrivo (52 km) è tutta discesa.
Se vi state chiedendo quanto tempo ci può mettere una persona a fare questo percorso, bè, la risposta è variabile: il record della corsa appartiene al romano Giorgio Calcaterra, in grado di arrivare a Faenza in 6 ore, 25 minuti e 47 secondi. Esseri umani un po’ più standard ci mettono dalle 10 alle 15 ore, senza contare il tempo necessario per riprendersi dall’impresa (e nemmeno le flebo di polenta grazie alla cui sola somministrazione il concorrente è in grado di riassumere la vista).
Si parte in Toscana di giorno, quindi, e si sconfina in Emilia di notte. Esattamente come doveva fare, in pieno Risorgimento, il personaggio da cui il percorso prende il nome, e che con il tragitto doveva essere decisamente familiare: il brigante Stefano Pelloni, detto il Passatore.
Stefano era l’ultimo ultimo di nove figli di un traghettatore, mestiere che all’epoca fruttava un centinaio di scudi l’anno; per ricordare il prestigio del padre si presentava alle proprie vittime come «Stvanè de Passador», e con questo soprannome passò alla storia. Alla geografia, invece, passò in seguito alla condanna a morte emessa dalla Romagna pontificia, rendendosi conto che nella vicina e liberale Toscana la pena di morte, grazie al granduca Leopoldo, era stata messa da parte.
La fuga si rese vieppiù necessaria in quanto cominciarono anche a fioccare taglie specifiche sulla sua testa, in grado di fruttare con una singola delazione quegli stessi cento scudi che il padre metteva su in un anno di lavoro. Dall’entità del premio, e dalla sua straordinarietà, si può desumere facilmente quanto fosse inviso alle autorità pontificie il Pelloni, questo «facinoroso» (come lo descrive il delegato Folicaldi) che «dopo avere nella più verde adolescenza segnato i primi passi di una delittuosa carriera con l’assassinio brutale di due militari inoffensivi, ha poi colmata la misura delle iniquità con una lunga serie di violenze e latrocinii». Queste parole, certo, potrebbero far sorgere dei dubbi, venendo da una autorità papalina, rappresentante «del provvido governo cui tanto sta a cuore la tutela della tranquillità e della sicurezza individuale»; e, da parte delle genti del centro Italia, le opinioni sul Passatore sono discordanti. Di sicuro non è molto stimato da Pellegrino Artusi, che nel corso dell’assedio di Forlimpopoli si è visto depredare la casa e violentare la sorella: ma non tutti, all’epoca dei fatti, hanno la stessa cattiva opinione del brigante. Non il Pascoli, per esempio, che lo ammanterà di un’aura di nobile galanteria alla Robin Hood; e non Garibaldi, che in una sua lettera del 1850 scrive «Le notizie del Passatore sono stupende… Noi baceremo il piede di questo bravo italiano che non paventa, di questi tempi di generale paura, di sfidare i dominatori». D’altronde, è comprensibile che all’eroe dei due mondi le imprese del Passatore facessero battere qualcosa sotto il poncho, visto che dopo il fallito tentativo di rivoluzione con la Repubblica Romana il buon Giuseppe era sfuggito alle guardie papaline proprio scollinando in Toscana, anche grazie ai sentieri di cui stiamo parlando.
Allo stesso scopo, le scorribande del Passatore sono spesso seguite da riparate strategiche lungo il percorso tra il Sangiovese e il Chianti, per evitare di essere preso e messo dagli emissari di Sua Santità a fare l’imitazione della caciotta a stagionare, appeso per il collo in qualche cantina. Il povero Pelloni poteva affrontare la luce del giorno in Toscana, godendosi la vista dalle colline di Fiesole o la pace di Borgo San Lorenzo, ma non poteva farsi vedere del tutto impunemente in Romagna, e quando vi tornava doveva affidarsi all’ospitalità di colleghi (si fa per dire) o amici. Amici che cominciano a diradarsi quando, nel 1851, viene arrestato dalle guardie pontificie il suo luogotenente Fagòt, al secolo Gaetano Morgagni, il quale per salvarsi la buccia rivela alle autorità tutti i particolari sulle case, i tragitti, i fiancheggiatori e gli ospiti della banda. Dopo una bella fucilazione di massa, tanto per non sbagliarsi e chiarire le cose, le guardie iniziano a braccare il brigante da vicino; e la notte del 23 marzo, nei pressi di Russi, il Passatore e il fido compagno d’arme Giazòl vengono circondati da un plotone di nove gendarmi e quattro volontari.
Tra i volontari, per un curioso omaggio a Gian Battista Vico, c’è tale Apollinare Fantini, ovvero la stessa persona che sette anni prima, e sempre vicino a Russi, aveva operato il primo arresto di Stefano Pelloni, allora ventenne e ancora senza soprannome. Il giovane, condannato a quattro anni per furto di fucili, fuggirà dal carcere; e, come abbiamo visto, si darà alla macchia, ruberà, sgozzerà, fuggirà e, dopo tanto penare, finirà per chiudere il cerchio nello stesso posto dove era stato arrestato per la prima volta, e per mano dello stesso uomo: è infatti il medesimo Apollinare Fantini, con una fucilata al petto, a mettere fine alla vita ed alle opere di Pelloni Stefano, detto il Passatore.
Un tempo, quando l’Italia aveva otto statuti diversi, parecchie persone facevano un percorso infido lungo l’Appennino per necessità oggettiva di salvarsi la pelle.
Oggi, nel ventunesimo secolo, noi facciamo la «cento chilometri del Passatore» per divertimento, e ci affascina l’idea che le stesse strade siano state percorse secoli or sono da oscuri briganti con le guardie alle calcagna, occhi alla strada davanti e orecchie alla strada dietro. Non c’è molto da stupirsi; in fondo, la nostra epoca è quella del dilettantismo esasperato, del far finta di essere professionisti, e molti di noi con cadenza settimanale si sfidano a calcetto indossando divise identiche in tutto e per tutto a quelle dei calciatori veri, sentendosi per un’ora come Messi o Cristiano Ronaldo nonostante polmoni sformati, pance tremolanti e piedi bananimorfi.
Così, forse, ci possiamo sentire dei veri briganti alle prese con la lotta per la sopravvivenza mentre arranchiamo su per il percorso del passatore. Con una differenza: a comprare una maglietta sono buoni tutti, a correre per cento chilometri no.
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 28 luglio) di Malvaldi Marco
Articolo originale: http://www.lastampa.it/2012/07/28/cultura/libri/la-toscana-di-malvaldi-sentirsi-briganti-per-cento-chilometri-RDbKcfBePxL6FsEK7ErhJM/pagina.html (anno 2012)