Racconto
Piazza Duomo, Firenze.
Sono all’ombra, seduto per terra, appoggiato alle transenne, muto.
Con gli occhi chiusi.
Un respiro profondo, li apro, e rimango accecato.
Accecato dalla luce riflessa dai marmi bianchi verdi e rossi di Santa Maria del Fiore.
Mi alzo, insieme ad altri 3000, circondato da una folla rumorosa.
O almeno credo che lo sia, perché non sento nulla.
Solo un brusìo indistinto.
Penso faccia molto caldo, ma non lo percepisco.
Non riesco a toccare con mano quello che accade.
Insensibile, atarattico, impassibile.
Impossibile.
La partenza inietta dentro di me una dose di adrenalina.
I 5 sensi attaccano il turno pomeridiano.
E se ne aggiunge anche un sesto, per fortuna.
Mi aiuterà.
Giro attorno al Battistero, me novizio (aspirante) centista.
E poi via da Firenze.
Come il ghibellin fuggiasco.
Impiego diversi km a “calibrare” la mia andatura sulla mia sensazione di fatica.
Non devo permettere che la prima superi la seconda, o viceversa.
Perché in entrambi i casi il conto prima o poi lo paghi.
Dal km 4 inizia la salita verso Fiesole, ma quasi non me ne accorgo.
La strada si inerpica fra ville signorili e tornanti affacciati su una vista splendida.
Per chi è di Roma, ricorda molto via Dandolo.
Solo leggerisssssssimamente più lunga.
Ed ecco Fiesole.
C’è parecchia gente ai lati della strada, ma non moltissima.
E nemmeno troppo coinvolta.
Sarà il caldo.
O il reddito pro capite, chi lo sa.
E’ pieno di fotografi, ufficiali e non.
E semplice gente che ti riprende con mezzi tecnologici più o meno avanzati.
Sono felice, mi sto divertendo tantissimo.
Sorrido in foto, strano per me durante una gara.
Ma mi viene naturale, oggi, e pure col pollicione come Fonzie.
E non vi dico dopo aver scavallato Vetta le Croci (km 16).
Inizia una fantastica e ombreggiata discesa, che ti mette voglia di far girare le gambe.
E infatti mi superano in tanti, tantissimi.
Ero 124mo, chissà ora.
Mi verrebbe da dire “State bboni!”.
Ma ognuno il suo passatore lo fa e lo vive come crede.
Deve essere così.
A Borgo San Lorenzo (km 32) la discesa finisce.
Transito sotto il traguardo intermedio accolto praticamente dall’intero paese.
Applausi, incitamenti, grida.
Litri e litri di benzina che si aggiungono ai miei integratori, alle barrette, ai parmigianini.
Con la differenza che al pieno non ci arrivi mai.
E forse è perché lo sanno bene, quelli di Borgo, cosa ci aspetta ora.
Ci preparano alla parte più dura (tecnicamente): la salita verso il passo appenninico della Colla.
Sedici km, da quota 195 a quota 913, con tratti di pendenza anche dell’ 8%.
La inizio con cautela, senza ansie.
Passi piccoli, pancia incollata alla strada (della Colla).
Riesco a correre sempre, senza fatica.
Non sento mai il bisogno di camminare, ma in molti lo fanno.
E bravi anche, si vede.
Gente esperta, che di passatori ne ha fatti.
Continuo a chiedermi se sto facendo male a correre e a non camminare un po’ come loro.
Ma davvero, la fatica non la sento proprio.
E il mio corpo in gara non è mai stato una cicala, lo conosco.
Non mi ha mai fatto fare il passo più lungo della gamba, almeno in gare lunghe.
Piuttosto una formica, anzi un ibrido tra formica e ghiro.
Che spesso mi impone andature oscillanti tra il risparmio energetico e il letargo.
Ultimo tornante, alla fine del quale penso di aver dimenticato la bicicletta a casa.
Sì, perché la folla che vedo, e le modalità con cui interagisce coi concorrenti, è la stessa del Giro d’Italia.
E’ incredibile, inusuale, unico.
Non mi sento uno che corre, ma uno che scala.
Il rapporto basso soppianta la falcata corta.
Fausto Coppi si sostituisce temporaneamente a Giorgio Calcaterra.
Ed ecco il traguardo della Colla (km 48).
Lo speaker dice che sono 49mo.
Avrà bevuto troppo, perché a 913 metri di quota non può essere colpa dell’aria rarefatta.
Altra foto, altro sorriso.
Non impostato, non imposto.
Vero, naturale.
Sono felice, davvero, già comunque contento di esserci.
E di aver avuto la forza di partire.
Ecco, appunto.
Nemmeno una curva in discesa e mi fermo.
Una fitta al fegato, fortissima.
Spero sia perché ho corso curvo tutto quel tempo.
Spero che l’improvviso cambio di postura abbia scombussolato tutto.
E che qualcosa “sfreghi” qualcos’altro.
No panic.
Premo con le dita sotto la gabbia toracica, a destra.
Do una “botta” come ai vecchi Telefunken analogici.
E il segnale riprende, Pippo Baudo ricompare sullo schermo.
E riparto.
Non era il fegato, per fortuna.
Sollevato, scollo dalla Colla colle gambe calle calle nonostante un venticello che accappona la pelle.
Non sono nemmeno le 20, e mi godo il tramonto sulle colline brulle intorno a me.
Troppo in basso per le abetaie, troppo in alto per le pinete.
In un lampo sono al traguardo di Casaglia (km 52).
E qui il tifo è alle stelle.
Cominciano le tavolate a bordo strada, che mi accompagneranno in tutte le tappe da qui a Faenza.
Interi nuclei familiari, o comitive di amici, che brindano alla tua salute.
Donne e uomini di ogni età.
Ragazzi e bambini, piccoli e piccolissimi, che ti rincorrono a piedi, in bici o col monopattino.
Evidentemente educati dai genitori a rispettare il passatore e chi lo onora correndo.
Vecchi e vecchissimi, che ti salutano dalle finestre, o dalle sedie fuori i portoni.
E che magari su quelle strade hanno visto passare ben altre colonne.
Evidentemente educati dai genitori a rispettare tutti, a prescindere.
E ognuno a modo suo ti fa sentire un eroe.
Perché per loro lo sei veramente in quel momento, un eroe.
Ti fanno sentire uno di loro.
Perché lo sei veramente in quel momento, uno di loro.
E non ti dicono forza, non ti dicono dai.
Ma ti dicono bravo.
Il che presuppone un merito che tu già hai conquistato.
Una prova che per loro hai già superato.
Solo per il fatto di essere lì.
E non importa se e come arriverai a Faenza.
Sei bravo.
Punto.
Marradi (km 65).
Ci arrivo in 6 ore.
Forse lo speaker della Colla non aveva bevuto, e mi aggiro veramente intorno alla 50ma posizione.
La frase che ho letto e sentito più volte da chi di passatori se ne intende è “Il passatore comincia a Marradi”.
Benissimo.
Cominciamo allora.
Sul traguardo di Marradi (pardon, alla partenza di Marradi) siamo in due.
Io e l’oscurità, appena arrivata e desiderosa di accompagnarmi fino a Faenza.
Anzi no, siamo in tre.
C’è anche una cappa di umidità che se l’è fatta dal mare fino a qui.
In tempo in tempo per il mio arrivo a Marradi (pardon, per la mia partenza da Marradi).
Verso il km 70 è buio pesto.
Sono solo, senza luce frontale (non la sopporto), soltanto con le fascette catarifrangenti sui polpacci.
E’ buio quasi totale (la luna è all’ultimo quarto).
Ma le gambe continuano a girare a buon ritmo.
Certo non fluido come nella prima parte di gara, ma la media è sempre quella, sui 5’30” più o meno.
Però che caldo, o almeno lo sento io.
Improvvisamente mi viene una sete tremenda, finisco l’ultima fiaschetta di acqua e sali.
Non ho più da bere con me ma non importa.
Vorrà dire che perderò qualche minuto ai ristori.
Arrivo al traguardo di San Cassiano (km 76) in poco più di 7 ore.
Mi fermo al ristoro, e alla luce vedo le mie braccia incrostate di sale.
Mi tocco il volto, idem.
Bevo acqua e prendo un po’ di sali.
Ho molta sete, e non capisco perché visto che ho sempre bevuto, ogni 5 km.
Sì, forse ho sempre azzeccato quando bere.
Ma non quanto bere.
O forse ho azzeccato tutto, ma ho perso comunque troppi liquidi.
Il prossimo anno mi sa che dovrò evitare di allenarmi sempre alle 6 di mattina…..
Ad ogni modo riparto da San Cassiano sempre di corsa.
Ma comincio ad aspettare con una certa ansia l’arrivo del cartello degli 80 km.
Poi con un’ansia sempre più certa l’arrivo del cartello degli 85 km.
E non è un buon segno.
Arrivo al penultimo traguardo, quello di Brisighella (km 88).
Guardando a posteriori le classifiche intermedie sono ancora 51mo.
Ed è incredibile, perché mi sembra di correre veramente piano.
Ho fame d’aria, ho sete, ho caldo, ma continuo a correre.
Aspettando il prossimo ristoro, la prossima oasi.
Mi sforzo comunque di sorridere al passaggio sul traguardo.
C’è ancora tanta gente, è sabato, non è ancora mezzanotte.
E sono ancora in tanti a dirmi bravo, non forza, non dai.
Meritano almeno un mio sorriso.
Stavolta impostato, e imposto (da me).
Appena fuori Brisighella c’è un ristoro, il penultimo.
Bevo acqua, e anche un po’ di coca-cola.
Ho voglia di roba fresca, anzi fredda, e soprattutto frizzante.
Chissà perché, qualcuno me lo spieghi.
Nel frattempo aumenta il numero di podisti che vedo a bordo strada.
Infortunati, ritirati, o semplicemente stanchi.
La maggior parte ha al seguito accompagnatori con bici, o automobili.
Ferme o in movimento, a supportarli in ogni modo.
Sono scelte.
Io ho deciso di fare il passatore da solo.
Senza nemmeno il telefono.
E non perché mi senta superiore, anzi.
Ma perché per me il passatore non è una gara come le altre.
E’ la gara di un’anima.
Che utilizza la sua scorza deperibile solo per mettersi alla prova.
Elevandosi.
Km 90. Crisi nera.
Nera come la strada davanti a me.
Nera come la notte che mi circonda.
Abbasso la testa, lo sguardo va sulle scarpe che si muovono probabilmente da sole.
Perché i piedi non li sento più.
Corro però. Quello sì.
Ormai ho messo il pilota automatico.
Non uno dei migliori, magari con la vista da talpa e i riflessi di un bradipo.
Ma pur sempre un pilota.
Per un attimo mi abbandona pure lui.
Mi fermo.
Inchiodato alla strada.
Immobile.
Lo sguardo è sempre basso.
La notte è sempre nera.
Anzi no.
Vedo una lucina.
Anzi due.
Tre.
Quattro.
Lampeggiano ad una frequenza di 1 Hz.
Mi sorpassano e vanno dritte verso Faenza.
Sono lucciole.
Saranno trent’anni che non le vedo, purtroppo.
Se non fosse stato per un ciclista che passando mi ha gridato l’ennesimo bravo, avrei creduto di avere le
traveggole.
E allora ricomincio a correre, ma non per la gara.
E’ che le volevo seguire, e vedere se più avanti ce ne fossero altre.
E infatti più avanti ci sono altre lucine.
Ma non lampeggiano.
Sono le luci dell’ultimo ristoro.
Che per me è come l’ultima Thule.
Bevo tutto il bevibile tranne il vino.
Un ragazzo tra i volontari mi dice qualcosa, che ricordo benissimo.
“Bravo. 5 e 4 ed è fatta”.
5 e 4, ovvero 5 chilometri e 400 metri.
Cinquemilaequattrocento passi.
E muoviti su.
Non te lo diranno gli altri, ma tu dittelo: “Dai”, “Forza”, “Manca poco”.
Riparto dal ristoro ringraziando quel ragazzo.
Per quella banale informazione.
Che avrei pure potuto intuire da solo, se solo avessi avuto la lucidità per farlo.
Km 95.
Si cerca di correre in bello stile, seppure con scarsa velocità.
Qualcuno mi sorpassa.
Tutti ultramaratoneti e passatori navigati, si vede.
Che stanno dando tutto da Brisighella in poi, da perfetti strateghi.
Ma non importa.
Sono felice per loro, se lo meritano.
I cartelli ora ci sono ad ogni km: 96, 97….
E non potete capire quanto questo aiuti nelle ultime parti di gara.
Al km 98 vedo il cartello “FAENZA”.
E parte dentro di me la fine di “Stairway to Heaven” dei Led Zeppelin.
Vedo la rotonda.
Vedo la sagoma del passatore.
Paterno e minaccioso.
Nobile e spietato.
Come tutti i briganti.
Odi et amo.
Km 99.
Corro.
Ma corro davvero, stavolta eh.
Come all’inizio, come in piazza Duomo.
Voglio arrivare, voglio vedere Giulia, Livia e Valerio.
Voglio godermi ogni metro.
Il cuore aumenta i battiti fino a 130 bpm.
Ah! Allora ne avevi ancora, lurido bastardo.
Potevi farmelo capire in qualche modo, no?
C’è un arco.
Si passa sotto e iniziano i 400 metri finali.
Non si vede la piazza, non si vede il traguardo.
Ma si sente tutto.
Si sentono gli applausi.
Una luce risplende al di sopra dei tetti delle case rosse sulla sinistra.
Come un’aurora boreale che non disdegna il caldo e l’umidità.
A 100 metri dalla fine la strada fa una deviazione.
Piccolissima, ma sufficiente ad aprirti la vista sul traguardo e sulla piazza.
E quante emozioni nella vita ho provato come questa?
Si contano sulle dita di una mano, forse di due.
Ho sempre immaginato nelle notti insonni dell’ultima settimana il mio arrivo.
Ma ho sempre clamorosamente sottostimato le sensazioni che avrei provato.
Mi viene da piangere, ma è un attimo.
Taglio il traguardo allargando le braccia.
Flash, fotografi, applausi.
L’onore di essere accolto dallo speaker che dice il mio nome.
Alla fine chiudo in 9h46’50”.
60mo assoluto su 2900 partiti e 2443 arrivati.
In genere chi arriva si ferma un attimo.
Io però ho in mente solo loro e passo oltre.
Li cerco ma non li trovo.
Poi eccoli.
Stanchi, e un po’ preoccupati.
Perché all’ultimo li ho fatti penare.
Li abbraccio raccontandogli solo gli ultimi km.
E di quanto sono stato bravo a non mollare.
Avevano ragione quelli che me lo gridavano per strada.
Bravo.
Sono anch’io un passatore.
Che 10 chilometri prima del traguardo ha detto “mai più”.
E che 10 metri dopo il traguardo ha detto “per sempre”.
Marco Girolami